Antonio Marras ha presentato la sua prima collezione uomo-donna in occasione della Fashion Week di Milano. Nel backstage della sfilata lo stilista sardo ha infatti spiegato il motivo di questa sua scelta.
«Come non mai questa stagione ho pensato che fosse una grande opportunità far sfilare l’uomo e la donna, ma soprattutto l’uomo e la donna con gli stessi tessuti, quindi comunicare e cercare di realizzare veramente un unico universo, un unico progetto che coinvolgesse appunto l’uomo e la donna.»
In che mondo vivono le donne e gli uomini della tua collezione?
«Vivono in un mondo che è un’Africa un po’ sui generis, che è l’Africa di Malick Sidibè, fotografo del Mali che ritraeva coppie di giovani africani che fin dagli anni ’50 agli anni ’60 andavano a ballare nelle sale da ballo dopo aver preparato grandi acconciature, ma vestivano e ballavano musiche occidentali. Mi sembrava l’occasione per fare dialogare altre discipline, la danza – in questo caso – e la fotografia con la moda, e soprattutto per raccontare che sia la musica che la moda possono essere elementi per abbattere i confini.»
Cosa vediamo dunque sulla passerella?
«Porto in passerella la mia visione dell’Africa e la visione del mondo. Io parlo di un universo globale e di qualcosa che vorrei definire ibrido-vestimentario: la commistione, la fusione, l’incastro, l’incrostazione, la sovrapposizione di elementi che arrivano da mondi, da realtà e da confini differenti per ricreare un nuovo linguaggio, un modo nuovo di comunicare.
Esattamente in questa collezione vedrete il finalissimo che è fatto di 40 abiti che sono fatti con elementi di recupero, quello che era veramente lo scarto delle lavorazioni, che è stato invece poi assemblato, ricamato, incrostato e messo insieme per ricreare esattamente 40 pezzi unici.»
Cosa ci puoi dire dei colori e delle forme di questa collezione?
«Qui vedete il sunto delle stampe, dei colori: non è un’Africa stereotipata, in realtà racconto un’Africa un po’ più intima, un po’ più discreta e personale. Ci sono i toni del sabbia, del deserto, quasi della penombra con piccoli accenni di colore. Le forme sono un po’ se vuoi anni ’50 – riviste e corrette chiaramente – con incursioni verso altri stili e volumi molto larghi; ci sono tessuti abbastanza particolari, un lino che non è macchiato ma è mal tinto, un jeans che è stato decorato e che poi diventa un pizzo, c’è la commistione di stampe e di colori che insieme vengono mischiati, c’è l’uso di rouches e incrostazioni e jeans tagliati a vivo poi lavati e ricamati. Ogni capo ha in realtà molti passaggi perché poi mi possa piacere e possa ritenerlo concluso.
Ricorrono sicuramente le forme anni ’50, un po’ “signorina Balli”. C’era un film molto carino (“Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”, ndr) dove Claudia Cardinale era seduta e arrivava Alberto Sordi che chiedeva “Signorina Balli”.»
E sulla testa delle modelle cosa hai voluto mettere?
«Non sono copricapi, ci sono le famose cofane anni 50 che James ha voluto ricreare ricordando appunto le foto di Malick dove queste donne si “coiffavano” in quella maniera.»
Dunque è importante dire che si tratta del primo show uomo e donna.
«Questa è la prima sfilata uomo-donna dove c’è una commistione di tessuti. C’è una performance di ballerini di colore. Questa potrebbe essere una strada, siccome non faccio programmi a lungo termine non posso prevedere o ipotizzare quello che sarà, adesso è così perché mi sembrava naturale che così fosse, poi vedremo cosa succederà.
Quello che volevo dire è che la musica allora e gli abiti facevano sì che i confini venissero abbattuti e ci fosse una commistione di culture e di razze. In questa maniera oggi come non mai ho provato nel mio piccolo facendo quello che faccio – facendo stracci – a far sì che la moda possa essere un linguaggio per comunicare e per poter provare ad abbattere confini.
Io nasco in un luogo dove sono arrivati tutti – turchi, arabi, spagnoli, francesi; sono il frutto di una stratificazione di culture. Io attingo da quello. È Africa ma ci potresti vedere le signorine di Osimo che andavano a ballare, ma anche quelle di Pordenone.»
Photo: Armando Melocchi